Prevenzione della radicalizzazione – Stefano Dambruoso

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Prevenzione della radicalizzazione: un problema europeo in cui l’Italia può essere leader

I recenti attacchi terroristici che hanno colpito l’Europa hanno consentito, nella loro drammaticità, di ribadire l’urgenza di affrontare il fenomeno della radicalizzazione islamista che conduce all’estremismo homegrown ed alla violenza terroristica: la maggioranza dei soggetti coinvolti nelle (pianificazioni ideate e/o realizzate sul Vecchio Continente era, infatti, composta da giovani cittadini europei nati e cresciuti negli Stati membri, ovvero da seconde o terze generazioni di immigrati ma anche convertiti.

Il profilo del radicalizzato homegrown, in grado di passare all’azione autonomamente, a seguito della martellante propaganda istigatoria online o previo “input” esterno proveniente dal quadrante siro-iracheno o da altri teatri di crisi, rappresenta la sfida principale per gli Apparati securitari nazionali e continentali non solo perché – come anticipato – rimanda a soggetti spesso con cittadinanza europea in grado di muoversi e mimetizzarsi facilmente all’interno del territorio comunitario ma anche, e soprattutto, perché l’adesione alla “causa” jihadista avviene in esito a processi di radicalizzazione sempre più rapidi ed invisibili, sui quali inevitabilmente le vicende legate alle sorti del Califfato – dalla sua gloriosa proclamazione e successiva espansione alla sua attuale decadenza territoriale – esercitano un ruolo predominante.

E, proprio con riferimento all’imminente sconfitta definitiva delle truppe di al Baghdadi in Siria e Iraq, a destare particolare preoccupazione è pure il possibile rientro in Europa di moltissimi foreign fighters anche europei – donne incluse – disillusi o, nella peggiore delle ipotesi, intenzionati a “vendicare” il fallimento del progetto califfale o comunque in grado di esercitare un forte appeal in termini di radicalizzazione e reclutamento nei confronti di più o meno giovani aspiranti jihadisti.

A proposito di giovani, non va dimenticato l’imponente numero di minorenni – i cd. leoncini del Califfato – esposti alle atrocità della guerra sin dalla tenera età ed addestrati a vere e proprie tecniche di guerriglia che, una volta fatto rientro in Europa, richiederanno – più dei combattenti senior – difficili e lunghi percorsi di riabilitazione e reintegrazione.

A rendere la situazione ulteriormente complessa interviene poi la difficoltà di individuare chiaramente i cd. fattori “radicalizzanti”, vista la loro indefinitezza, la pluralità e imprevedibilità delle loro combinazioni e l’impossibilità di misurarne oggettivamente l’impatto concreto sui differenti soggetti. A conferma di ciò, l’analisi retrospettiva del vissuto dei terroristi sembra evidenziare – pure a fronte di taluni tratti comuni – caratteristiche e percorsi anche molto diversi da caso a caso.

Ciò che invece sembra accomunare la quasi totalità dei soggetti radicalizzati è la vicinanza, anche solo virtuale, a network o individui che agiscono da propagatori del pensiero estremista: sul web e all’interno delle strutture detentive, contesti che, specie negli ultimi anni, hanno assunto una rilevanza strategica nella diffusione e nell’assorbimento dell’ideologia jihadista; nell’ambito di luoghi di culto e gruppi di predicazione; in contesti familiari o amicali; tra le file di gang criminali e, più in generale, in ogni altro spazio – fisico e non – in cui si possa entrare in contatto con i vettori del “contagio” radicale. È evidente, dunque, come – a prescindere dal mezzo utilizzato – l’ideologia jihadista possa essere in grado di colmare quel vuoto identitario e di appartenenza che, specie nelle seconde e terze generazioni di migranti, può essere causato da una cd. “doppia assenza”, in cui non si appartiene più alla cultura di provenienza e non ci si sente parte di quella occidentale.

E in Italia? Il nostro Paese, storicamente, è stato uno dei primi in Europa ad essere interessato da una presenza jihadista già nei primi anni Novanta, in virtù dell’attivismo di vari network di origine nordafricana e della prossimità geografica con i Balcani, all’epoca teatro delle note crisi geopolitiche.

Tuttavia, il Bel Paese, pur assolutamente non immune alla mobilitazione jihadista, non ne è toccato con la stessa intensità di altre realtà europee, come anche dimostrato dal numero esiguo – se confrontato, appunto, con altri Paesi dell’Unione – di foreign fighter spartiti verso il fronte siro-iracheno. Ciò può essere spiegabile soprattutto in ragione di una storia dell’immigrazione più recente (e, dunque, di una minore presenza di seconde e terze generazioni), dell’eterogeneità delle comunità musulmane presenti e della mancanza di una netta dominanza etnica tra di esse, fattori che tendono a prevenire lo sviluppo di dinamiche di autoesclusione e isolamento.

Ancor di più, fondamentale a caratterizzare positivamente l’Italia in Europa è l’operato del nostro apparato anti-terrorismo, che trova il suo alveo privilegiato nel Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo (CASA), ove Forze di polizia e intelligence collaborano costantemente – virtù tutt’altro che scontata, specie in Europa. – per prevenire e contrastare le varie tipologie di minaccia connesse al nostro Paese, facendo ricorso, tra l’altro, al dispositivo delle espulsioni, un valido strumento di prevenzione che, come evidente, non può tuttavia applicarsi nei confronti di connazionali.

Ciononostante, l’attenzione all’interno dei confini nazionali deve rimanere alta, visti anche i recenti episodi – dal passaggio sul territorio nazionale di Anis Amri, attentatore del mercato di Natale di Berlino, alla presenza in Italia di Anis Hanachi, fratello dell’attentatore di Marsiglia – che confermano la rilevanza del nostro Paese nelle dinamiche del jihad (testimoniata pure da significativi richiami all’Italia e al Vaticano nella propaganda jihadista).

Cosa fare? Come detto, un lavoro eccellente viene già quotidianamente svolto dal nostro anti-terrorismo. Con particolare riferimento alla prevenzione della radicalizzazione, è opportuno continuare a muoversi lungo un robusto percorso di iniziative che agisca in un’ottica multidisciplinare e multisettoriale e che promuova la più ampia sinergia tra le varie Amministrazioni dello Stato coinvolte, nonché uno stretto dialogo tra comunità islamiche ed istituzioni pubbliche, con la partecipazione della società civile, degli ambienti di riferimento e degli stessi network relazioni e familiari.

Un’efficace strategia di prevenzione, dunque, potrebbe basarsi su un insieme di misure funzionalmente interconnesse, quali: lo sviluppo di una contronarrativa rivolta soprattutto alle fasce più giovani della società, a partire dal contesto scolastico, volta a evidenziare le imposture e incoerenze della proposta jihadista favorendo invece il dialogo interculturale e interreligioso; la messa in opera di progetti di assistenza per soggetti esposti a rischio radicalizzazione, di recupero per individui già ideologicamente “sedotti” (inclusi i detenuti) e di de-radicalizzazione nei confronti di chi – come i combattenti di rientro dai teatri di jihad – ha raggiunto uno stadio avanzato nel processo di radicalizzazione; l’attuazione di un approccio regolatorio della pratica religiosa, nell’ottica di un sistema di sicurezza partecipata che interessi anche affidabili esponenti della Comunità musulmana nazionale.

Proprio alla questione, per certi versi spinosa, relativa ai luoghi di culto voglio dedicare particolare attenzione. Ritengo che vietare la costruzione di nuove moschee possa aumentare il rischio di proliferazione di luoghi informali allestiti per ospitare funzioni religiose, dove è più facile la circolazione di idee radicali e più arduo operare gli opportuni controlli. Non può essere impedita la libertà di culto che, anzi, va garantita. Ma allo stesso tempo, è necessario mettere in campo ogni forza disponibile affinché i cittadini non si sentano minacciati dalla presenza di stranieri con una fede diversa dalla loro. Questo problema può essere risolto intensificando l’integrazione, in modo rispettoso della Costituzione, ma anche intensificando i controlli sui finanziamenti di luoghi di culto, i quali devono essere ufficiali, a norma di legge, e, soprattutto non provenienti da enti riconducibili al terrorismo.

L’approccio onnicomprensivo al fenomeno della radicalizzazione sopra richiamato è ben espresso nelle misure di macro, meso e micro livello individuate dal Rapporto elaborato dalla Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista insediata presso Palazzo Chigi, i cui orientamenti di policy, incluso l’investimento in attività di ricerca, sono stati molto utili nel redigere, insieme all’Onorevole Andrea Manciulli e altri deputati di diversi schieramenti politici, la proposta di legge in materia di prevenzione della radicalizzazione, già passata alla Camera dei Deputati ed ora in attesa di approvazione presso il Senato della Repubblica.

Lungi dal volermi addentrare in considerazioni pro domo mea, si tratta di un’iniziativa parlamentare che rappresenta un’indiscussa novità sul piano legislativo e, per molti versi, un progetto pilota a livello europeo perché, in caso di definitiva approvazione, l’Italia sarebbe il primo Paese ad adottare una vera strategia di prevenzione e contrasto della radicalizzazione con l’istituzione di una cabina di regia (il Centro Nazionale sulla Radicalizzazione – CRAD) tra i diversi dicasteri coinvolti, gli esperti del settore e tutte quelle realtà istituzionali e privatistiche che possono dare un contributo alla individuazione di politiche virtuose di deradicalizzazione e recupero di estremisti violenti di matrice jihadista.

Il problema della radicalizzazione, va da sé, non può essere affrontato esclusivamente all’interno dei confini nazionali. In tal senso, e nel più ampio quadro del contrasto al terrorismo internazionale, va assumendo sempre più centralità e ruolo di sostegno l’azione dell’Unione Europea, specie nel quadro dell’Agenda europea sulla sicurezza che, prendendo atto delle nuove e complesse minacce che negli ultimi anni il continente si è trovato ad affrontare, sollecita gli Stati membri e tutti gli altri attori coinvolti a collaborare per contrastare, nel rispetto delle prerogative e delle responsabilità nazionali, le sfide che richiedono di essere affrontate con la massima urgenza, proprio a partire dal terrorismo jihadista e dalla radicalizzazione.

Al riguardo, è particolarmente interessante l’esempio del Radicalisation Awareness Network (RAN), ossia la “Rete di sensibilizzazione al problema della radicalizzazione” che, fondata nel 2011 dalla Commissione europea, rappresenta un eccellente esempio di collaborazione tra esperti del settore (più di 2mila, provenienti da tutti gli Stati membri dell’UE, tra attori locali, professionisti, esperti, ricercatori e gruppi della società civile), caratterizzata da un approccio multi-settoriale al problema, dall’individuazione di interventi tailor-made, dalla condivisione di best practices e dalla volontà di coinvolgere maggiormente la società civile nella lotta contro la radicalizzazione.

Nell’ambito dei nove gruppi che compongono il RAN, sono state nel tempo raccolte raccomandazioni chiave per i vari stakeholder – governativi e non – interessati al fenomeno della radicalizzazione, tra le quali: l’auspicio di un sempre maggiore dialogo all’interno delle comunità religiose, specie tra le fasce più giovani; la necessità di scegliere i right partner con cui collaborare, in un’ottica di partenariato di lungo termine; la funzione strategica che le guide religiose possono svolgere all’interno dei luoghi di detenzione, anche in termini di riabilitazione dei detenuti. Degne di nota, inoltre, sono le proposte da avviare all’interno di scuole e carceri, con l’obiettivo di promuovere attività di de-radicalizzazione per favorire l’uscita dei singoli dai gruppi a rischio e garantirne il loro reinserimento in società. In definitiva, quello della RAN è un virtuoso esempio di cooperazione dal basso il cui scopo è quello di aumentare la forza delle comunità e la loro resilienza di fronte alle sfide dell’estremismo violento sostenendo la costituzione di gruppi di lavoro nazionali e locali di esperti per favorire un approccio che risponda in modo confacente alle specifiche caratteristiche territoriali.

Un virtuosismo che, se ulteriormente implementato nel nostro Paese e se abbinato alle misure previste dalla proposta di legge sopramenzionata, consentirebbe all’Italia di porsi, anche in materia di prevenzione della radicalizzazione, in prima linea nel contrasto ad una delle principali piaghe per l’Europa e non solo. Ciò, naturalmente, sempre seguendo l’asse che passa attraverso solidarietà, sicurezza e rispetto della legge, concetti cardine della nostra Repubblica che devono sempre, inevitabilmente, procedere lungo la stessa direzione.