Stefano Dambruoso
I recenti attacchi terroristici che hanno colpito l’Europa hanno consentito, nella loro drammaticità, di ribadire l’urgenza di affrontare il fenomeno della radicalizzazione islamista che conduce all’estremismo homegrown ed alla violenza terroristica: la maggioranza dei soggetti coinvolti nelle (pianific)azioni ideate e/o realizzate sul Vecchio Continente era, infatti, composta da giovani cittadini europei nati e cresciuti negli Stati membri, ovvero da seconde o terze generazioni di immigrati ma anche convertiti.
Il profilo del radicalizzato homegrown, in grado di passare all’azione autonomamente rappresenta la sfida principale per gli apparati securitari nazionali e continentali perché l’adesione alla “causa” jihadista avviene in seguito a processi di radicalizzazione sempre più rapidi ed invisibili, non va, inoltre, dimenticato l’imponente numero di minorenni che, una volta fatto rientro in Europa, richiederanno difficili e lunghi percorsi di riabilitazione e reintegrazione. Ciò che sembra accomunare la quasi totalità dei soggetti radicalizzati è la vicinanza, anche solo virtuale, a network o individui che agiscono da propagatori del pensiero estremista: sul web, luoghi di culto, in contesti familiari o amicali e, più in generale, in ogni altro spazio in cui si possa entrare in contatto con i vettori del “contagio” radicale.
E in Italia?
Il nostro Paese è stato uno dei primi in Europa ad essere interessato da una presenza jihadista già nei primi anni Novanta, in virtù dell’attivismo di vari network di origine nordafricana e della prossimità geografica con i Balcani. Tuttavia, non ne è toccato con la stessa intensità di altre realtà europee. Ciò può essere spiegabile soprattutto in ragione di una storia dell’immigrazione più dell’eterogeneità delle comunità musulmane presenti e della mancanza di una netta dominanza etnica tra di esse, fattori che tendono a prevenire lo sviluppo di dinamiche di autoesclusione e isolamento.
Ancor di più è l’operato del nostro apparato anti-terrorismo, che trova il suo alveo privilegiato nel Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo (CASA), ove Forze di polizia e intelligence collaborano per prevenire e contrastare le varie tipologie di minaccia.
Cosa fare?
è opportuno continuare a muoversi lungo un robusto percorso di iniziative che agisca in un’ottica multidisciplinare e multisettoriale nonché uno stretto dialogo tra comunità islamiche ed istituzioni pubbliche, con la partecipazione della società civile, degli ambienti di riferimento e degli stessi network relazioni e familiari.
Tale approccio omnicomprensivo è ben espresso nella proposta di legge in materia di prevenzione della radicalizzazione, redatta insieme all’Onorevole Andrea Manciulli e altri deputati di diversi schieramenti politici, già passata alla Camera dei Deputati e arrivata in aula al Senato ma non è stata approvata per il termine della legislatura. Si tratta di un’iniziativa parlamentare che rappresenta un’indiscussa novità sul piano legislativo: un progetto pilota a livello europeo perché l’Italia sarebbe il primo Paese ad adottare una vera strategia di prevenzione e contrasto della radicalizzazione con l’istituzione di una cabina di regia tra i diversi dicasteri coinvolti, gli esperti del settore e tutte quelle realtà istituzionali e privatistiche che possono dare un contributo alla individuazione di politiche virtuose di deradicalizzazione e recupero di estremisti violenti di matrice jihadista.